Sgomento

Quel giorno, il 30 giugno 2017, rimarrà scolpito a fuoco nella mia mente per sempre. 

Ricordo la luce fredda dello studio medico e la calma innaturale dell'ambiente. Ero seduto di fronte al neurologo. 

Dopo quella che mi parve un'eternità, arrivò il momento del verdetto. 

Con una voce neutra, pronunciò le parole che avrebbero spaccato la mia vita in un "prima" e un "dopo": "

Caro signor Silva, lei ha il Parkinson".

Il nome della malattia mi colpì con la violenza di un'onda anomala. Da quell'istante, la voce del medico divenne un ronzio indistinto, un rumore di fondo. 

Non sentivo più nulla di ciò che diceva, delle possibili cure, delle terapie, delle speranze. Le sue parole si perdevano nel frastuono assordante dei miei pensieri, un turbine di paura e angoscia che mi risucchiava.

Dentro di me, un'unica, agghiacciante certezza si fece strada: "Morirò. Tra poco morirò!".

Non so come riuscii ad alzarmi e a uscire da quello studio. 

Il viaggio verso casa fu un incubo a occhi aperti. 

Un tremore incontrollabile si era impadronito di tutto il mio corpo, non solo della mano sinistra che mi aveva portato a fare quella visita. Ogni passo per raggiungere la porta di casa era un'incertezza, ogni pensiero un'agonia. 

La realtà si era distorta, il futuro, prima pieno di progetti, ora appariva come un abisso nero e senza fondo.

Seguì una notte insonne, passata a fissare il soffitto, con il cuore in gola e la mente in fiamme. 

Quando le prime luci dell'alba filtrarono dalla finestra, mi accorsi con una sorta di stupore di essere ancora vivo. 

Il sollievo, però, durò un attimo, subito sostituito da un pensiero altrettanto cupo: "Ok, non oggi. Allora morirò domani!".

Andai avanti con questa macabra tiritera per un'intera settimana. 

Ogni mattina mi svegliavo sorpreso di esistere ancora e ogni giorno mi convincevo che sarebbe stato l'ultimo. 

Poi, lentamente, quando iniziai a capire che la morte non era un appuntamento così imminente, un nuovo terrore, forse ancora più subdolo, prese il posto del precedente: 

"E allora? Allora tremerò così per tutta la vita!".

L'idea di un'esistenza passata a lottare contro il mio stesso corpo, di essere prigioniero di un tremore incessante, mi tormentò per un'altra settimana. 

Vivevo come un automa, vedendo la mia mano e il mio braccio sinistro muoversi senza il mio controllo, come parti estranee e nemiche.

Poi, all'inizio della terza settimana, accadde qualcosa. 

Era un lunedì mattina. Mi ritrovai davanti allo specchio del bagno, quasi per caso. E per la prima volta, mi guardai davvero. 

Vidi la mia immagine riflessa: un uomo con gli occhi cerchiati dalla paura, la mano e il braccio sinistro scossi da quel tremito instancabile.

Fissai a lungo quell'immagine, quel me stesso spaventato e tremante. 

E in quel silenzio, dal profondo della mia anima, sorse una domanda, chiara, potente e inevitabile, una domanda che avrebbe cambiato tutto: 
"Ma tu... vuoi vivere o morire?"

In quel momento, davanti al mio riflesso, capii che la vera battaglia non era contro il Parkinson. 

Era contro la disperazione. 

E dovevo decidere da che parte stare.

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